LA SAGGEZZA DELL'ETERNO RITORNO
Quando aveva esposto, nel gennaio 1978, alla Galleria Solferino di Milano lo schema grafico del suo grande gioco esistenziale homicide, Lago bianco, l’ago nero, Marcello Pietrantoni aveva prefigurato il destino della sua creazione in un atto al quale ne seguivano altri tre. Citando in proposito la felice formula di Maurice Roche, uno scrittore ormai dimenticato, la vie n’est là que pour mémoire, Franco Torriani aveva giustamente definito il punto di partenza come il diapason dell’atmosfera generale dell’opera. Ne aveva soprattutto presentito il filo d’Arianna, il determinismo pendolare fra l’alternanza dialettica della memoriamadre e delle memorie-comparse.
Lago bianco, l'ago nero - Pastello, 1978 - cm 73 x 73
Pastello, 1979 - cm 97 x 51
A quell’epoca avevo già capito che Marcello Pietrantoni aveva posto “l’ago” del suo destino fra Nietzsche e Hegel, fra il cuore e la maniera, fra la morte dell’arte e la vita delle forme.
Ed infatti l’autore inscriverà il secondo atto del suo Gioco dell’ago nella prospettiva dell’estetica hegeliana.
È così che i modelli-scultura esposti nel 1986 a Palazzo Greppi, accompagnati da fotografie emblematiche, il tiratore scelto, la signora telegrafista, l’osservatore aereo e, soprattutto, il ritratto di Berenson di fronte al Tempio del Cuore, si presentano come frammenti di un essenziale percorso della comunicazione, un vero e proprio itinerario della percezione. È l’uomo dal gusto raffinato che conduce il gioco della sensibilità attiva.
Il cliché di Berenson si identifica inequivocabilmente con quello del voyeur-veggente, dell’esperto innamorato dell’oggetto che contempla. Lo spettatore è invitato ad un viaggio ideale in seno all’universo neoclassico di un’architettura esistenziale: la dimora della mente e quella del cuore.
L’eterno ritorno nietzscheano non si fa quasi attendere.
Il misterioso e insondabile appetito spirituale che trascende la vita interiore di Pietrantoni non poteva accontentarsi dei riferimenti abbastanza chiari alla ragione hegeliana, anche se carichi di impulsi del cuore. La sua ricerca indaga la via delle profondità della conoscenza occultista e dei suoi misteri che egli traduce in archetipi allegorici. Jod, il principio assoluto; Sachiel Meleck, la voiontà; Enoch, la scienza cabalista; Caf, l’energia del lavoro e del la collera; senza contare la teoria di arcangeli, Samael, Gabriel, Rafael... Questi objets-plus, queste sagome dai contorni strani, uscite dalle profondità dell’immaginario, assumono il peso specifico del loro lento emergere dalle zone più lontane della memoria. Esposte nel 1988 prima a Torino e poi a Milano, suscitano un’ eco ricca di risonanze.
Andrea Branzi vi vede, assai giustamente, l’impronta del passaggio dal rito al progetto, Francesca Alfano Miglietti la morte di un’esperienza.
Lago bianco, l'ago nero - Pastello, 1977 - cm 73 x 97
Il terzo atto è compiuto, la fantasia è sfociata nella semiotica. L’archetipo ha acquisito la sua piena autonomia attraverso la fenomenologia del linguaggio. Tutto è ormai pronto per la messa in scena del quarto atto, il libero sviluppo di una scultura dal volto umano, la fissazione tridimensionale di atteggiamenti che diventano forme.
Le opere recenti, eseguite da Marcello Pietrantoni a partire dal 1996, testimoniano in maniera toccante il culminare di questo processo organico di significazione. Sono personaggi in bronzo di formato medio, che tuttavia evocano irresistibilmente la grandezza naturale attraverso la fissazione istantanea della posa e l’aspetto estatico della loro presenza. Evocano un folgorante arresto del tempo, del pensiero e della memoria; si presentano come effigi parossistiche di un momento privilegiato e raro
dell’azione e della meditazione. Sono momenti gravi, come tutti i momenti d’estasi. La loro immanenza dimostra tutta la portata del da sein heideggeriano, l’esserci al termine ultimo di un’esperienza individuale assunta e vissuta in quanto tale. Questa esperienza è evidentemente quella dello scultore, anzi l’oltrepassa tanto è acuto il grado di intensità spirituale che essa raiggiunge. Marcello Pietrantoni è il primo a stupirsi della potenza “conclusiva” dell’energia immateriale che emana dalle sue ultime opere. Me l’ha confidato egli stesso in una lettera del 16 giugno scorso: “Dovrei raccontarti di questo lavoro che sento conclusivo di qualche cosa che però non capisco.
Forse ho voluto strutturare attraverso i miei miti un simbolo che sento pregnante di storia presente ma anche di un passato eternamente intuito. Credevo di aver ormai capito e concluso cose che ora riappaiono prepotentemente. Senz’altro hanno una necessità e una ragione...’’.
Lago bianco, l'ago nero - Pastello, 1978 - cm 51 x 73
La necessità... essa ha preso in Pietrantoni la forma del Gioco dell’ago nero che ha orientato il destino della sua opera. E poi, nel quarto atto, è avvenuto il miracolo. Usando le parole di Duchamp, direi che nel caso di Pietrantoni il fenomeno, tanto necessario e sufficiente quanto imprevedibile, si è realizzato: la misteriosa transustanziazione che conferisce alla materia inerte l’energia spirituale dell’arte viva. Ultramare evoca il gioco di braccia e gambe del surfista sulla cresta dell’onda.
È uno sport di moda ed i media ci offrono spesso quest’immagine di fugace felicità dell’estate perenne. Ecco dunque la più pura metafora di un istante felice nel flusso aleatorio della relatività esistenziale. Dolico evoca una situazione similare attraverso
i morbidi movimenti di un ballerino, Uriano ci offre l’immagine di una donna seduta con le cosce fortemente incrociate all’altezza del ginocchio, in preda all’orgasmo spasmodico del piacere solitario, Niso raffigura, attraverso il rovesciamento del busto all’indietro, l’estasi travolgente del seguace di una setta di Beth al quale si rivela il principio lunare.
Le figure più statiche, irrigidite su gambe interminabilmente lunghe (Margherita o Terranera Realto), rimandano l’immagine di una stasi meditativa.
Tutti i personaggi hanno in comune la grazia austera del loro inscriversi nello spazio: un modo di sottolineare la gravità del messaggio di cui sono portatori, l’arresto del tempo in un istante privilegiato della memoria. Sicheo rompe con la linea generale dell’allungamento delle figure offrendoci il blocco massiccio di un pensatore seduto, la cui lunga testa ovoidale è affondata nelle spalle. Ci si immagina facilmente Marcello che si guarda nello specchio del bagno di casa sua. Infine Ronco, gracile centauro dal collo lungo e dalle zampe sottili, ci fa pensare ad una sfinge in versione peso piuma. Questa serie d’istantilimite della memoria non è priva di humor.
Una serie di istanti e pose-limite che mi hanno commosso dapprima per la serena gravità che ne emana e poi per la bellezza delle loro sproporzioni fisiche. Le figure femminili hanno natiche da falsa magra, i torsi maschili sono svelti senza essere scarni. Questa tipologia rimanda più all’eleganza dell’Art Déco che al severo espressionismo della Secessione viennese.
Essa si situa radicalmente al di fuori del modello Pop o fotorealista. Rispetto all’insieme della scultura figurativa contemporanea, l’opera di Pietrantoni si ammanta di una discreta aura d’atemporalità, che è anche la caratteristica di alcuni oggetti della produzione del design.
Tutto ciò fa riflettere. La scultura sarebbe dunque per Pietrantoni il mezzo per fissare quegli istanti intensi e fugaci che danno senso alla vita.
Pastello, 1977 - cm 78 x 73
Nello spazio di vent’anni l’artista ha portato a conclusione il circuito comunicativo della sua operazione linguistica. Ponendo le premesse del suo Gioco dell’ago nero, ha condotto a termine, con inesorabile logica istintiva, il destino poetico della sua creazione. Sono personalmente assai sensibile a quello che io considero il più degno e il più elegante gesto d’addio. Addio all’intera dinamica del suo processo creativo. Lago bianco, fago nero, il quarto atto è terminato, e bene, in grande stile, come si deve.
Marcello Pietrantoni non ha bisogno di andare oltre. A meno che non si inventi un altro gioco, che rischierebbe però di essere un gioco dell’oca che fa ritorno alla casella di partenza.
Stai tranquillo, caro Marcello, tu hai saputo, con tanta eleganza quanta discrezione, inserire le tue sculture nella logica poetica dell’eterno ritorno. Sei stato l’artefice dell’atemporalità del loro destino.
Hai saputo dare un senso alla tua angoscia metafisica. Non lasciarti prendere dal suo impulso caotico.
Le tue ultime sculture del 1996, del resto, parlano da sole e la sensazione di saggezza diffusa che da esse emana proviene dalla notte dei tempi. Questa saggezza è sempre la stessa, quella dell’eterno ritorno, del monaco zen e del muratore che edificò le cattedrali gotiche.
Pierre Restany
Milano, settembre 1998
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